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Martino Martini era il ragioniere capo della Maglioni Assortiti. Egli si presentava tutte le mattine alle otto nel suo ufficio grigio, dalla cui finestra si vedevano solo palazzi grigi. Il suono dei passi veniva completamente assorbito da una moquette grigia, stesa per ogni dove. Martino Martini, ogni mattina alle otto, apriva il suo cassetto e ne estraeva una matita; poi, con la fretta imposta dalla dura necessità del lavoro, esaminava conti, fatture, ordini e bolle, come si conviene al migliore dei ragionieri capo possibili. Migliaia di numeri, ordinati e precisi, si allineavano in lunghe colonne di dare e di avere. Martino Martini sapeva di lottare ogni giorno contro il caos. Freddo e perverso, privo di forma ma non privo di sostanza, il caos era in agguato in ogni millimetro quadrato dei suoi libri contabili. Sarebbe stato sufficiente un errore di un’unità per creare scompiglio. Una decina sbagliata poteva generare effetti devastanti, ma se l’errore si fosse verificato nella colonna delle migliaia, o delle decine di migliaia (per non parlare dei milioni) l’ordine sarebbe stato perso per sempre, ogni pace interiore perduta. Il Presidente lo avrebbe convocato e lo avrebbe fissato con cipiglio severo, senza dire una parola, comunicandogli con un semplice sguardo tutta la riprovazione dell’azienda. Martino Martini accettava la lotta, consapevole dei suoi poveri mezzi, certo che la minima distrazione sarebbe stata fatale. Combattere contro il caos è difficile, se poi l’arena in cui si svolge la lotta è tappezzata di moquette grigia non si ha neppure la soddisfazione di cogliere il sorriso del mondo intorno a sé. Con il passare degli anni, però, sentiva che la lotta si faceva sempre più difficile. Il Grande Disastro incombeva sui suoi libri contabili, come un’idra pietrificata pronta a riprendere vita. Prima o poi, pensava, una cifra salterà. E’ inevitabile, perché non si può lottare per sempre contro il caos. Si sentiva sempre più stanco, sempre più vicino alla sconfitta.

Una sera di novembre Martino Martini uscì dall’ufficio alle otto di sera, come avveniva tutti i giorni, con la stessa puntualità con cui, al mattino, si presentava al lavoro. Attese pazientemente il tram che lo avrebbe accompagnato a casa. La serata era fredda, ed egli avvertiva una sensazione indefinibile di disagio. Arrivato alla sua fermata percorse come sempre i vicoli umidi, stringendosi nel bavero del cappotto. Salì nel suo appartamento, si preparò due uova e una fettina di formaggio, ma la cena non riuscì a dissipare la sensazione di malessere che lo accompagnava. Si stese sul letto, si misurò la febbre e scoprì di avere trentanove. Il mattino dopo la febbre era salita a quaranta. Provò ad alzarsi dal letto per raggiungere l’ufficio, ma le gambe gli cedettero, ed egli si rese conto che il suo fisico non avrebbe retto a quell’impresa: avrebbe sì raggiunto il posto di lavoro, ma soltanto per esalarvi l’ultimo respiro. Per un attimo fu combattuto, poi concluse che se fosse morto l’azienda ne avrebbe ricavato il massimo danno, ancora peggio che se fosse rimasto a letto per un giorno. Allora prese la decisione di telefonare che era malato, poi tornò a stendersi. Cominciavano ad assalirlo strani pensieri, e sogni assurdi gli riempivano la mente.

Dapprima gli parve che i numeri allineati lungo le colonne dei suoi libri prendessero vita. C’era il sette, numero evidentemente malvagio e intrinsecamente caotico, al punto da generare criteri di divisibilità del tutto insensati. Il due era simpatico, un numero amichevole e leggero, ma l’otto, grassone insolente, non faceva che vessarlo sostenendo di esserne il cubo. Lo zero guardava tutti dall’alto in basso, ma gli altri lo ignoravano come se lo ritenessero una nullità. Stanco di quel trattamento, lo zero andò ad allinearsi in fondo a una fila di quattro otto panciuti, trasformando un decoroso ottomila ottocento ottantotto in un orribile ottantottomila ottocento ottanta. Gli otto iniziarono a scambiarsi di posto tra loro, per non essere vicini a quel numero insignificante, ma il risultato non cambiava. Le altre cifre osservavano la scena inorridite. Nel volgere di qualche istante scoppiò una gigantesca bagarre, i numeri si mescolarono senza nessun criterio. I sei migrarono verso l’alto, con aria altera e i nasi al soffitto, i nove scesero e si allinearono lungo il margine inferiore, saltellando sulla loro unica gamba. Martino Martini fissava lo spettacolo con orrore, consapevole che il caos aveva vinto, che nulla più avrebbe potuto dare un significato a quelle cifre impazzite. Grosse lacrime gli confusero la vista, la tristezza della sconfitta dominava i suoi pensieri.

Poi la scena cambiò, si fece limpida, tersa. Martini era proiettato nello spazio. Vedeva stelle sfrecciare intorno a lui, nubi di gas e polvere assumevano forme bizzarre, galassie spirali e spirali barrate ruotavano lente, gigantesche ancorché così piccole da formare quasi una polvere luminescente. Gli apparve sul fondo un chiarore, una forma immensa e indefinibile, e capì di essere al cospetto di Dio. La luce si fece in lui, lo avvinse e lo penetrò, e improvvisamente tutto gli fu chiaro; negli ultimi attimi della sua esistenza mortale, la Verità si presentò evidente davanti ai suoi occhi: Martino Martini sapeva qual è il compito di Dio. Nell’alto dei cieli, oltre le ultime galassie, Egli lotta nanosecondo dopo nanosecondo contro il caos che avanza. Inesorabile è il procedere del nulla. Le stelle si dissolvono in supernove, la materia è sempre più ricca di elementi pesanti, l’idrogeno finirà. Ma Egli, tenacemente, coraggiosamente, tenta di arginare la marea del caos privo di forma, già prevedendo quel destino grigio e indifferenziato che è l’unico possibile per ciò che egli ha creato. Ed è sempre più stanco, sempre più vicino alla sconfitta.