Brian Greene è diventato famoso anche in Italia grazie al saggio L’universo elegante, pubblicato per la prima volta da Einaudi nel 2000. Il saggio tratta della teoria delle stringhe, che a quei tempi era in grande spolvero (ma questo non ci interessa particolarmente in questa sede). Greene non è l’unico scienziato che enfatizzi il concetto di eleganza nelle teorie fisiche. Che un modello del mondo debba essere elegante (oltre che, ovviamente, adatto a descrivere il mondo reale) sembra oggi quasi un luogo comune. Quasi tutti i divulgatori che ne parlano (e sono molti) attribuiscono se non la paternità dell’idea per lo meno una preminenza al fisico inglese Paul A. M. Dirac (1902 – 1984) che vinse il premio Nobel nel 1933 insieme a Schroedinger. Giusto per citarne uno, il professor Vincenzo Barone nel suo libro L’anima pura della fisica – La filosofia naturale di Paul A.M. Dirac riporta la seguente citazione di Freeman Dyson:
Perché un elettrone dovrebbe preferire un’equazione bella a una brutta? Perché l’universo dovrebbe danzare sulla musica di Dirac? Con il suo stile di scoperta, Dirac ha formulato queste domande in maniera più nitida di chiunque altro. Ancor più di Newton e Einstein, egli usò il criterio di bellezza come un modo per trovare la verità.
Ma che cos’è esattamente l’eleganza? In che cosa consiste la bellezza? Personalmente capisco (o credo di capire) questo punto di vista, che tuttavia mi pare sottilmente inquietante. La bellezza fa certamente parte dei fenomeni; ce ne accorgiamo tutte le volte che guardiamo la superficie del mare, subito dopo il tramonto, quando l’acqua riflette sfumature di colore che ci ricordano i viaggi di Odisseo, oppure quando un temporale scatena la sua furia e si mostra come nuvole nere al cui interno appaiono lampi di incredibile potenza. “Fenomeno” viene dal verbo greco fàino, che significa apparire. Perche il mondo appaia occorre che ci sia qualcuno a cui appaia, e la bellezza a mio parere è decisamente sbilanciata dalla parte di quel qualcuno. La Gioconda di Leonardo, in sé, non è altro che una tavola coperta di pigmenti colorati. Insomma, porre l’accento sull’eleganza delle teorie fisiche fa pensare che il ruolo dell’osservatore sia determinante nel creare il mondo. Del resto, Dirac fa parte di quella generazione di fisici che teorizzò in modo forte il ruolo dell’osservatore nel determinare la realtà. Non che oggi questo punto di vista sia abbandonato, ma, insomma, si tende a parlare di decoerenza, di interazione piuttosto che di osservazione, e la stessa interpretazione di Copenaghen della meccanica quantistica ha leggermente cambiato faccia.
Un punto di vista più esplicito, e per certi versi più interessante, fu esposto dal premio Nobel Eugene Wigner in un famoso articolo del 1960[1]. L’articolo di Wigner inizia con una citazione di Russel:
“Mathematics, rightly viewed, possess not only truth, but supreme beauty cold and austere, like that of a sculpture…”
Russel si riferiva alla matematica di per sé, non in quanto collegata alle sue applicazioni nelle scienze naturali. Quello che fa notare Wigner è che:
“…the enormous usefulness of mathematics in natural sciences is something bordering on the mysterious, and there is not rational explanation for this.”
Come secondo aspetto:
“… it is just this uncanny usefulness of mathematical concepts that raises the question of the uniqueness of our physical theories.”
Cioè: 1) la matematica possiede una capacità intrinseca, assolutamente sbalorditiva, di poter essere applicata alla descrizione del mondo, e 2) questo è un aspetto fortemente connesso all’unicità delle teorie fisiche. Sul secondo di questi punti mi riservo di tornare, ma in un altro post. Il primo punto mi sembra una ridefinizione del concetto di eleganza delle teorie enunciata in termini più oggettivi. Non stiamo più parlando di bellezza, concetto evidentemente soggettivo, ma di utilità per le scienze naturali, cosa che rappresenta un fatto innegabile.
Sto scrivendo questo articolo su un computer portatile comprato due anni fa. Qualche volta penso come sarebbe divertente farlo vedere a un esperto di hardware del 1980. Lo fisserebbe con gli occhi ridotti a due fessure; Guarderebbe lo schermo di taglio, domandandosi dove diavolo sia il tubo catodico, poi mi chiederebbe: “che cosa intendi quando dici che ha 16 gigabyte di RAM? Vuoi dire 16 kilobyte?” Uso questo esempio solo per dire che noi abitanti del XXI secolo usiamo tutti i giorni una tecnologia che solo cinquant’anni fa sarebbe sembrata marziana, tecnologia che rappresenta la ricaduta pratica delle scoperte scientifiche dell’ultimo secolo e mezzo, a loro volta basate su un uso pervasivo della matematica. Un teorema vi stupirà. L’opinione di Wigner mi sembra più che corretta, quasi profetica.
Un aspetto fondamentale di questa enormous usefulness è legato alla compattezza della descrizione matematica del mondo. La matematica della fisica sembra spesso complicata alla gente, reduce da anni passati a scuola nel tentativo di capire la differenza tra l’ipotesi e la tesi del teorema che la prof di matematica manipola con tanta scioltezza, mentre il gesso stride sulla lavagna. Tuttavia, chiunque abbia affrontato la faccenda in modo professionale sa che in realtà non è difficile. Pochi concetti e qualche regola. L’unico problema vero è abituarsi al loro utilizzo, finché ne emerge tutta la bellezza. Il punto è: per sapere come si comporta una molla (in linea di principio) non serve risolvere un sistema composto da un miliardo di equazioni in altrettante incognite (cosa che sarebbe impossibile per un umano), ma è sufficiente studiare come si comporta la modestissima equazione F = -kS (dove F è la forza e S è lo spostamento dalla posizione di equilibrio).
Un giorno, non so come mai, le implicazioni di questa affermazione mi hanno afferrato come un polipo che avvinghia la sua preda, e ha cominciato a girarmi la testa. Vediamo se riesco a farla girare anche a voi.
Consideriamo, ad esempio, le equazioni di Maxwell. Le riporto qui, in una variante scolpita sulla pietra, ma per seguire il ragionamento non è assolutamente necessario capire che cosa vogliono dire.
I testi di fisica ci assicurano che queste equazioni descrivono tutto l’elettromagnetismo. Correnti indotte da magneti? Sono scritte nelle equazioni di Maxwell. Generatori di Van De Graaff, quelli con cui si divertiva Tesla? Nelle equazioni di Maxwell ci sono. Onde elettromagnetiche? Eccole.
Adesso consideriamo le equazioni di Maxwell dal punto di vista della quantità di informazione che contengono. Si tratta di 31 simboli in tutto. Non posso calcolare la quantità di informazione se non conosco l’estensione dell’insieme di simboli da cui quelli che compaiono nelle equazioni sono presi. Io dico che non sono più di 65.536 (probabilmente sono molti di meno), il che significa che fanno parte di una “palette” descrivibile con 2 byte. Questo implica che il contenuto informativo delle equazioni di Maxwell è minore o al massimo uguale a 62 byte. Sessantadue byte per raccontare tutto l’elettromagnetismo: i fulmini, le batterie d’auto, i magneti del CERN, la luce che ci arriva da lontane galassie… Direi che abbiamo superato la fase dell’eleganza: sembra che ci sia qualcosa di davvero molto, molto strano.
Vorrei aggiungere che le equazioni di Maxwell sono solo un esempio, che tutta la fisica che conosciamo ha la stessa caratteristica. Pensate all’infinita varietà dei fenomeni descritti dall’equazione di Newton F = ma. Il contenuto informativo è ancora più piccolo. Il caso più interessante (per certi versi), o per lo meno quello che permette di spingere più lontano questa riflessione è quello dell’equazione di Einstein del campo gravitazionale. In senso generale la si può scrivere come:
Curvatura dello spazio-tempo = funzione della densità di materia-energia
Dal punto di vista della teoria dell’informazione, qual è il contenuto di questa equazione? Vista così, si direbbe che sia composta da tre soli simboli. Cioè, se stabiliamo che “A” corrisponde a “curvatura dello spazio-tempo” e “B” a “funzione della densità di materia-energia”, l’equazione di Einstein contiene solo i simboli “A”, “B” e “=”. Ma dove sta scritto che “A” è “curvatura dello spazio-tempo”? “A” potrebbe essere qualsiasi cosa (potenzialmente infinite cose), e sono solo io che attribuisco ad “A” il significato di “curvatura dello spazio tempo”. Si noti che lo stesso problema sussiste anche a proposito delle equazioni di Maxwell.
È corretto sostenere che sono io che attribuisco ad “A” il significato di “curvatura dello spazio tempo”? Onestamente, direi di no. Se fosse rigorosamente vero, nessuno mi capirebbe. Bisogna che ci sia un accordo sul significato di “A”, tale per cui chiunque legga l’equazione di Einstein (e conosca la regola su cui ci siamo messi d’accordo) sia in grado di capirne il significato. A questo punto ci avviciniamo pericolosamente al punto forse più critico di tutta la teoria dell’informazione: il rapporto tra sintassi e semantica. La semantica, a mio parere, può essere solo un concetto culturale. Se non c’è accordo sul significato di una cosa, il significato stesso non esiste. Un essere intelligente proveniente da un altro pianeta non avrebbe nessuna possibilità di capire l’equazione di Einstein, il cui contenuto informativo (in senso semantico) per lui sarebbe nullo. In effetti, credo proprio che sia così: visitatori alieni che arrivassero sulla Terra dopo l’estinzione della specie umana potrebbero anche scoprire la tomba di Boltzmann, quella su cui è scolpita la sua celebre formula dell’entropia, ma non potrebbero neanche in linea di principio stabilire che non serviva a noi umani per cucinare la pasta con le vongole (e neanche capire che quello rappresentato è un umano e non un fungo).
Quindi tutta la faccenda potrebbe essere ambigua, derivare da una semplice red herring. In questo caso, se vi ho fatto girare la testa, vi chiedo scusa. C’è però un discorso oggettivo: è vero che i simboli che usa la matematica sono molto pochi. Le funzioni di base (trigonometriche, esponenziali ecc.) sono usate e riusate in centomila formule diverse. Cioè: la sensazione che la palette di fondo necessaria per descrivere il mondo in termini matematici sia molto limitata, oggettivamente, rimane. È una sensazione strana, affine a quella che provai la prima volta che sentii parlare dell’insieme di Mandelbrot.
Per chi non l’avesse mai visto, ecco un esempio di un dettaglio dell’insieme di Mandelbrot, preso da Wikimedia Commons:
Si tratta di un frattale: i dettagli di questo tipo sono letteralmente infiniti. Cioè: è possibile ingrandire la figura all’infinito, e a qualsiasi ingrandimento appaiono dettagli nuovi. Tuttavia la funzione che genera questo spettacolo pirotecnico della matematica è semplicissima:
In tutto 14 simboli (se uso la stessa modalità che ho usato in precedenza per contare i simboli nelle equazioni di Maxwell). Cioè: 14 simboli generano infiniti dettagli! L’eleganza si spreca. E si forma la sensazione che viviamo in un mondo frattale…
Qual è la conclusione di questo discorso? Molto onestamente: non c’è. Ciascuno è (e rimane) del tutto libero di ritenere che l’eleganza sia solo nell’occhio di chi prende in considerazione le equazioni, oppure (come sembra che abbia fatto Dirac) che un modello matematico, se non è elegante, non è il modello corretto dei fenomeni che pretende di descrivere. Ce ne potrebbe essere una, di conclusione, ma è troppo arbitraria, troppo soggettiva (dal mio punto di vista) e anche troppo lunga per essere esposta qui. Magari in un altro post…
[1] E. Wigner, The Unreasonable Effectiveness of Mathematics in Natural Sciences, Comunications in Pure ad Applied Mathematics, 13, I (1960). L’articolo originale si trova facilmente in rete.